Non tutto ciò che è nuovo è innovativo. Per stabilire il reale grado di innovatività di una molecola introdotta sul mercato bisogna considerare alcuni parametri chiave: primo tra tutti il grado di beneficio aggiuntivo per i pazienti derivante dal suo impiego in luogo delle terapie già in uso. Su questa base, è poi indispensabile stabilire quale sia il giusto prezzo da pagare in relazione al reale potenziale terapeutico della nuova opzione di cura e tenendo in considerazione gli sforzi compiuti dall'industria per metterla a punto. «Il 20 luglio 2012 la European Medicines Agency (EMA) ha raccomandato l'approvazione della prima terapia genica», ha spiegato Bertil Jonsson della Medical Products Agency di Uppsala (Svezia) in occasione del 19° Congresso European Association of Hospital Pharmacists - EAHP "The innovative hospital pharmacist - imagination, skills and organisation" (26-28 marzo - Barcellona, Spagna). «Nello stesso anno, sono stati autorizzati 47 nuovi medicinali e 19 farmaci orfani. Tutti promettevano di migliorare la qualità di vita dei pazienti, con un rapporto rischio-beneficio favorevole e a un costo decisamente elevato. Analizzando con attenzione gli effettivi vantaggi clinico-pratici apportati dalle nuove molecole, tuttavia, si deve concludere che la spesa associata al loro impiego non è sempre ugualmente giustificata. Limitandosi a considerare l'ambito oncologico, i farmaci sviluppati nell'ultimo ventennio che hanno realmente meritato e che continuano a meritare di essere considerati innovativi si contano sulle dita di una mano. Rituximab (autorizzato nel 1998), temozolomide (1999), trastuzumab (2000), imatinib (2001) hanno rivoluzionato l'approccio alle neoplasie contro le quali erano stati messi a punto, assicurando ai pazienti un significativo miglioramento della sopravvivenza e della qualità di vita, che non è venuto meno neppure dopo follow-up prolungati. In altri casi, quelli che sembravano farmaci rivoluzionari nelle osservazioni iniziali hanno visto via via mitigarsi l'entità dei benefici che potevano essergli attribuiti con il prolungarsi del periodo di monitoraggio. D'altro canto, anche un farmaco di per sé non innovativo può diventarlo nel cotesto di nuove strategie di combinazione. E innovativi possono essere nuovi meccanismi d'azione o tecnologie produttive: anche in questi casi, tuttavia, per rispondere pienamente all'attribuzione dovrebbe essere rispettato il criterio dell'impatto del nuovo prodotto su aspetti clinici critici nel contesto della cura della malattia cui è destinato e, in particolare, sugli outcome di interesse per il paziente (a breve e a medio-lungo termine). La costo-efficienza del farmaco è un elemento chiave di questo impatto, ma non lo esaurisce. Eppure, a oggi, l'efficacia clinica e la costo-efficienza sono i due principali parametri utilizzati dai sistemi sanitari per definire le strategie di rimborso nei Paesi europei, mentre l'innovazione è inserita nei percorsi di HTA soltanto in Francia e in Italia».
Riconoscere che cos'è realmente innovativo è importante non soltanto per allocare razionalmente le risorse e offrire terapie avanzate ai pazienti che ne hanno bisogno, evitando gli sprechi, ma anche per ricompensare adeguatamente l'impegno delle aziende in ricerca e sviluppo, promuovendo così ulteriori investimenti. «Nonostante i sostanziali passi avanti compiuti negli ultimi anni nelle conoscenze farmacologiche e biomediche e la disponibilità di tecnologie sempre più raffinate, si assiste a una crescente divaricazione tra costi dei progetti di ricerca e sviluppo messi in campo dall'industria e numero di nuovi farmaci che arrivano sul mercato», ha spiegato Alexander Schuhmacher della Reutlingen University (Germania). «L'aumento della spesa per l'individuazione e lo studio di nuove molecole promettenti calcolato tra il 1950 e oggi negli Stati Uniti è pari al 12,3%: un valore che va ben al di là della quota dovuta all'inflazione, pari soltanto al 3,7%. Il restante 8,6% si giustifica con le crescenti difficoltà di individuare bersagli farmacologici critici, la maggiore complessità degli studi clinici, le richieste di dati sempre più approfonditi da parte delle agenzie regolatorie e i costi del personale dedicato a ricerca e sviluppo. La scarsa efficienza nel completare il processo di messa a punto e approvazione, invece, può dipendere da un insufficiente studio delle molecole candidate in fase preclinica, dall'aver focalizzato l'attenzione sulla ricerca di nuove soluzioni terapeutiche per patologie croniche di difficile trattamento, dalle minori probabilità di veder autorizzato il proprio farmaco in un sistema affollato di competitor, dalla difficoltà di ottenere dai nuovi composti benefici aggiuntivi in patologie già abbastanza ben controllate dalle cure esistenti, nonché dalla resistenza dei regolatori a introdurne e rimborsarne di nuove. L'aspetto che più preoccupa è che, senza una sostanziale inversione di tendenza, l'attività di ricerca e sviluppo sarà a breve insostenibile anche per le aziende con i budget più floridi. I primi segnali di difficoltà si sono già avuti, con i tentativi di risparmio messi in campo tagliando gli investimenti e il personale impiegato in ricerca e sviluppo, delocalizzando le attività in Paesi emergenti, avviando progetti in collaborazione con aziende partner o acquistando candidati molecolari promettenti da realtà esterne. Ma queste strategie da sole non basteranno a risolvere la situazione. L'aumentata richiesta di farmaci da parte dei Paesi in via di sviluppo aiuterà a raccogliere più capitali, ma soltanto rispetto alla vendita di medicinali a basso costo e generici; farmaci biologici e terapie avanzate onerose rimarranno ancora a lungo inaccessibili per questi mercati. Altre vie per rendere l'attività di ricerca e sviluppo maggiormente sostenibile comprendono la focalizzazione degli sforzi sulle aree terapeutiche caratterizzate da maggiori probabilità di successo e, soprattutto, sull'individuazione di risposte ai bisogni insoddisfatti dei pazienti, un argomento meglio spendibile in fase di autorizzazione e rimborso».