In diretta dal 19th EAHP - 27 marzo 2014
«I farmaci biologici sono proteine complesse di grandi dimensioni prodotte in organismi viventi con tecnologie del DNA ricombinante», ha ricordato Hans-Peter Lipp, direttore della clinica Universitaria di Tubinga (Germania), durante il 19° Congresso dell'European Association of Hospital Pharmacists - EAHP 2014 "The innovative hospital pharmacist - imagination, skills and organisation" (26-28 marzo - Barcellona, Spagna). «Per questa ragione, diversamente dai farmaci tradizionali costituiti da piccole molecole ottenute per sintesi chimica, non possono essere riprodotti in modo assolutamente fedele. Per i farmaci biologici a brevetto scaduto, quindi, non esisterà mai una versione "generica" perfettamente identica, ma soltanto un prodotto "biosimilare" con funzioni biologiche, indicazioni cliniche e profilo di rischio analoghi, ma non completamente sovrapponibili. Sviluppare e produrre un biosimilare richiede tempi e investimenti di gran lunga superiori a quelli necessari per realizzare un generico. Inoltre, è prevista una procedura di autorizzazione centralizzata a livello europeo più complessa e basata su una documentazione scientifica più estesa di quella richiesta per i farmaci equivalenti, comprendente anche solidi dati preclinici. Una volta concessa, l'autorizzazione per il biosimilare riguarda soltanto la specifica indicazione per la quale è stata sottoposta l'applicazione all'European Medicine Agency (EMA) e non le altre eventuali indicazioni cliniche dell'originatore corrispondente. Ulteriori indicazioni potranno al più essere estrapolate sulla base di criteri predefiniti.
Questa procedura laboriosa e l'elevato numero di dati richiesti ai produttori di biosimilari sono indispensabili per assicurare la qualità del prodotto e la sicurezza dei pazienti che dovranno assumerlo. L'approfondimento preclinico richiesto è indispensabile per garantire che l'efficacia clinica, verificata per l'originatore, sia mantenuta dal biosimilare, senza un aumento significativo dell'immunogenicità. Nonostante alcuni farmaci biosimilari siano già in uso, sia tra i medici sia tra i pazienti permangono diverse incertezze rispetto alle loro caratteristiche in rapporto all'originatore e al loro impiego clinico. Il primo dubbio riguarda l'effettiva qualità del prodotto finale e le eventuali ricadute della non perfetta identità dei due farmaci biologici sul piano dell'efficacia e degli eventi avversi. Un secondo interrogativo si pone nel caso di indicazioni estrapolate senza aver direttamente testato il farmaco in pazienti affetti dalla specifica patologia nell'ambito di studi clinici mirati. Sul piano clinico-pratico, invece, la consapevolezza della non completa sovrapponibilità tra biosimilare e originatore fa mettere in discussione l'opportunità della sostituzione nei pazienti già in terapia e, qualora sia prevista, ci si chiede come debba, poi, essere attuata la farmacovigilanza. A riguardo, va precisato che l'EMA, pur ammettendo la sostituzione, non fornisce indicazioni su come attuarla, facendo ricadere sul singolo prescrittore la responsabilità della scelta (salvo l'esistenza di specifiche disposizioni nazionali).
L'esperienza maturata con altri preparati biologici, come l'epoetina, insegna che non è soltanto la componente proteica "attiva" a incidere sul grado di immunogenicità del farmaco, ma che anche gli eccipienti e le modalità con le quali viene prodotto, conservato e manipolato sono determinanti, potendo influenzarne la tendenza all'aggregazione, la presenza di impurità o prodotti di degradazione ecc. Con l'aumentare del numero dei biosimilari disponibili sul mercato, si presenterà anche il problema di definire criteri di scelta tra i diversi prodotti biosimili e l'originatore, posto che il potenziale risparmio immediato non può essere considerato l'unico parametro di riferimento. Per assicurare la massima costo-efficienza delle cure, sarà necessario rivedere la procedura SOJA (Selection by Objectified Judgement Analysis) convenzionale in funzione delle peculiarità delle terapie biologiche».
Il valore degli anti-TNF in reumatologia
«I farmaci biologici, in particolare gli anti-TNF, hanno rappresentato una pietra miliare nell'approccio alle malattie infiammatorie croniche in ambito reumatologico e gastroenterologico, poiché hanno permesso di modificarne sostanzialmente l'evoluzione clinica e di prevenire lo sviluppo di condizioni di grave compromissione e invalidità severa», ha sottolineato Eugen Feist dell'Università di Medicina Charité di Berlino (Germania). «Attualmente, in reumatologia gli anti-TNF possono essere utilizzati per il trattamento dell'artrite reumatoide, della psoriasi e dell'artrite psoriasica, della spondilite anchilosante e dell'artrite idiopatica giovanile, nei pazienti che non hanno risposto adeguatamente al precedente trattamento con farmaci antinfiammatori convenzionali e con metotrexato o DMARD, somministrati in monoterapia o combinati tra loro, per almeno 3-4 mesi. Questo approccio "a gradini" previsto dalle Linee guida EULAR (European League Against Rheumatism) e ACR (American College of Rheumatologists) è stato definito in relazione alla variabilità del decorso clinico di ciascuna di queste patologie e della differente risposta alle terapie da parte dei pazienti: due caratteristiche condivise anche dalle patologie infiammatorie croniche dell'apparato digerente (IBD). Tuttavia, l'esperienza maturata negli ultimi anni indica che, nei pazienti affetti da forme aggressive, la soluzione migliore è intraprendere precocemente un trattamento più "energico" in grado di ridurre rapidamente l'attività della malattia, per poi eventualmente retrocedere verso terapie meno impegnative. Per individuare i casi che meritano questo tipo di intervento precoce ci si può avvalere di biomarker, come il fattore reumatoide e gli anticorpi anti-citrullina, e di tecniche di imaging, come la risonanza magnetica. Più in generale, la scelta dello specifico farmaco da utilizzare in prima battuta e nelle diverse fasi del percorso di cura deve essere personalizzata e tenere conto dell'età, dei fattori di rischio individuali (in particolare, sul fronte infettivo), delle eventuali comorbilità, delle attese e delle concrete possibilità del paziente di seguire la terapia prescritta. Contrariamente ai timori iniziali, l'impiego degli anti-TNF si è dimostrato ben tollerato e sicuro, nonché associato a un aumento dell'aspettativa di vita, conseguente alla riduzione del rischio cardiovascolare, tipicamente elevato nei pazienti con artrite reumatoide e altre patologie infiammatorie croniche. Naturalmente, trattandosi di farmaci immunomodulatori, durante la terapia con anti-TNF si dovrà procedere a un regolare monitoraggio e si dovranno rispettare alcune cautele per evitare possibili problematiche infettive (vaccinazioni, profilassi pre e post-chirurgica, test di screening ecc.). Purtroppo, in circa la metà dei pazienti reumatologici la risposta al primo farmaco biologico impiegato, da solo o combinato con metotrexato, è inadeguata. In questi casi, prima di abbandonare l'anti-TNF e passare allo step di cura superiore (rituximab) si deve provare un secondo anti-TNF».
I farmaci biologici nella pratica clinica gastroenterologica
«Le IBD sono un gruppo di patologie complesse, difficili da diagnosticare e gestire, caratterizzate da un decorso a ricadute e riacutizzazioni, estremamente variabile da paziente a paziente per intensità e frequenza delle manifestazioni», ha affermato Alessandro Armuzzi dell'Università del Sacro Cuore - Complesso Integrato Colombo di Roma. «Nella malattia di Crohn, all'esordio, nella maggior parte dei casi (75-80%) è presente esclusivamente un'infiammazione più o meno intensa della mucosa. In assenza di un trattamento efficace, tuttavia, già dopo 3-5 anni una quota non trascurabile di pazienti tende a sviluppare stenosi e fistole intestinali (20-40%) che devono essere trattate chirurgicamente. In passato, i pazienti con IBD erano trattati soltanto in occasione delle riacutizzazioni, con farmaci sintomatici, oppure con corticosteroidi, nel tentativo di ridurre la frequenza delle manifestazioni e posticipare l'intervento chirurgico. Purtroppo, però, il 20% dei pazienti non risponde adeguatamente ai corticosteroidi e circa la metà dei responder iniziali (45%) sviluppa assuefazione nell'arco del primo anno di terapia, con il conseguente venir meno dell'effetto antinfiammatorio. Da circa 15 anni, per gestire le IBD si hanno a disposizione anche farmaci biologici, come infliximab, che permette di modificare la storia naturale della malattia, determinando una sostanziale regressione non soltanto dell'infiammazione, ma anche delle lesioni già presenti nella mucosa intestinale. Ciò riduce la necessità di ricorrere alla chirurgia, portando in alcuni casi alla completa remissione (verificata endoscopicamente). Analogamente a quanto avviene in ambito reumatologico, anche l'approccio alle IBD segue un percorso a gradini che prevede la somministrazione di anti-TNF dopo il fallimento di strategie basate su aminosalicilati o corticosteroidi. Tuttavia, la migliore conoscenza dell'eziopatogenesi delle IBD e l'esperienza maturata nell'uso dei biologici fanno ritenere che un impiego più precoce di questi farmaci potrebbe essere vantaggioso per smorzare l'infiammazione sul nascere, prevenire la progressione della malattia e ridurre ulteriormente il rischio che si sviluppino lesioni della mucosa intestinale negli anni successivi. Un trattamento precoce, inoltre, potrebbe aumentare la probabilità di risposta agli anti-TNF, che tende generalmente a diminuire con l'avanzare della malattia».
Biologici originatori e biosimilari: come orientarsi?
Un inconveniente associato all'uso dei farmaci biologici è il loro costo tendenzialmente elevato. Il progressivo scadere dei brevetti e la conseguente introduzione sul mercato di un numero crescente di biosimilari promettono di ridurre l'impatto economico di queste terapie avanzate sui budget dei sistemi sanitari, permettendo di estenderne l'impiego a un maggior numero di pazienti. Tuttavia, alcune considerazioni sono d'obbligo. «Il biosimilare di infliximab (CT-P13), sviluppato a partire dalla sequenza aminoacidica e dalla struttura dell'originatore, è stato approvato dall'EMA circa un anno fa per il trattamento dell'artrite reumatoide e della spondilite anchilosante, mentre non sono stati condotti studi registrativi per l'impiego nelle IBD né in ambito dermatologico», ha precisato Eugen Feist. «Gli studi registrativi hanno dimostrato un comportamento farmacocinetico e clinico simile per i due biologici, con tassi di risposta e remissione paragonabili e un profilo di sicurezza sovrapponibile. Ciò ha portato a stabilirne la bioequivalenza. Tuttavia, bisogna ricordare che biologico originatore e biosimilare non sono lo stesso farmaco e che, diversamente dall'originatore, per il biosimilare esiste, di fatto, una limitata esperienza d'uso. Ciò significa che non si può essere certi che sul lungo periodo il biosimilare continuerà a mantenere le stesse prestazioni di efficacia e sicurezza verificate durante il follow-up del trial registrativo. Una prima indicazione che, nel tempo, CT-P13 potrebbe comportarsi diversamente da infliximab viene dalla valutazione dell'andamento dell'immunogenicità dei due farmaci riportata nello studio registrativo per l'indicazione all'uso nei pazienti con artrite reumatoide (Yoo DH et al. Ann Rheum Dis 2013;72:1613-20). Benché la percentuale di pazienti che sviluppano anticorpi aumenti in misura paragonabile per entrambi i farmaci per tutto il periodo di follow-up, a 54 settimane si osserva una maggiore tendenza allo sviluppo di anticorpi tra i trattati con il biosimilare. Anche se non statisticamente significativa, questa discrepanza autorizza ad avere qualche dubbio sul comportamento successivo. A maggior ragione, le incertezze sono lecite per le indicazioni che potranno essere estrapolate in futuro, senza mai essere state preliminarmente verificate nei pazienti».
«Nei prossimi anni», ha aggiunto Alessandro Armuzzi, «si avranno a disposizione numerosi biosimilari dei principali farmaci biologici in uso. Nuove versioni biosimili di infliximab, rituximab, etanercept e adalimumab entreranno nell'armamentario terapeutico ed estenderanno il ventaglio di soluzioni da offrire ai pazienti. Si tratta di un'evoluzione positiva, a patto di conoscere le caratteristiche e il valore clinico di ciascuna di queste molecole e di sceglierle in modo oculato, in relazione al paziente che si ha di fronte. Personalmente, ritengo che, almeno in una fase iniziale, il biosimilare debba essere eventualmente somministrato soltanto in pazienti naïve per avere la possibilità di verificarne meglio gli effetti clinici. Eviterei, invece, la sostituzione che non dà garanzie sull'esito della terapia e complica notevolmente la farmacosorveglianza. In ogni caso, ritengo, in accordo con il Position statement ECCO (European Crohn's and Cholitis Organization), che i biosimilari debbano essere impiegati nel trattamento delle IBD (come in altre patologie) soltanto dopo averli specificamente testati in questa popolazione clinica e non per semplice estrapolazione delle indicazioni dell'originatore».